Mi volevano ‘avvocatessa’, io no (Domenica Lorusso)

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Mi volevano ‘avvocatessa’, io no

Ricorda il momento in cui decise che avrebbe voluto essere un medico?
«Fu quando vidi mio nonno malato di tumore spegnersi lentamente. Un periodo molto doloroso che trascorsi accanto a lui e che mi fece cambiare il modo di vedere la figura del medico».

Perché, che cosa accadde?
«Capii di volermi occupare dei malati perché mi piaceva l’idea di sapere le cose subito e direttamente, conoscerle in prima persona, dal di dentro. Una caratteristica che peraltro ho sempre mantenuto, fin da allora. Ma soprattutto scelsi di diventare un medico per poter essere diversa da quello che aveva avuto in cura mio nonno: era stato molto chiuso, silenzioso, poco empatico. Sarà perché si sentiva impotente di fronte al tumore, ma mi disturbava il fatto che fosse scostante, non mi guardava neanche in faccia. L’empatia è una dote cruciale per qualunque medico, figuriamoci per un oncologo».

La sua famiglia l’assecondò in questa scelta?
«I miei non erano d’accordo, mio padre era un avvocato penalista, alle mie sorelle fu in qualche maniera imposto di rispettare il gene paterno, al punto che oggi hanno tutte ripercorso le sue orme. Io sono l’unica laureata in medicina della famiglia, ci sono riuscita solo perché mi e’ sempre piaciuto studiare».

Che ricordi ha del periodo universitario?
«Andò tutto a gonfie vele, tranne che per un unico esame: istologia, nel secondo semestre del primo anno. Lo ricordo ancora come uno spettro, il professore mi trattò molto male e rimediai l’unica bocciatura del mio intero percorso di studi. Ci rimasi malissimo, entrai in crisi, mio padre ebbe a lungo il timore che mi bloccassi psicologicamente. Per fortuna riuscii a reagire in fretta e a mettermi alle spalle quella brutta esperienza».

Come nacque il suo interesse per l’oncologia?
«È stata una coincidenza davvero singolare. Avevo scelto di specializzarmi in ginecologia, ma sei mesi prima di finire la specializzazione fui mandata a lavorare in un reparto di ginecologia oncologica. Il nuovo responsabile stava formando una squadra di giovani in gamba, così mi offrì di partecipare a uno studio di ricerca clinica. Non mi feci sfuggire l’opportunità e da lì cominciò un percorso, passato attraverso il dottorato, che ha rappresentato un’esperienza di grande crescita al fianco del mio mentore».

Se non avesse fatto il medico, chi pensa che sarebbe stata oggi?
«Quasi sicuramente un magistrato, chissà, forse per un semplice spirito di competizione nei confronti di mio padre, chissa’ che direbbe Freud».

Nel tempo libero che cosa le piace fare?
«Sono un’appassionata di arte: mi piace frequentare mostre e leggere molto. Mi considero una persona curiosa, ho verso le cose la stessa curiosità che nutro per la ricerca scientifica in campo oncologico. Un piccolo rammarico è che, con la vita convulsa che faccio, non riesco a fare attività fisica come vorrei. O forse sì, se consideriamo le corse che mi faccio negli aeroporti tra voli e coincidenze… »

L’aspetto più bello della sua professione?
«Non c’è dubbio: lo scambio con le pazienti. Da loro riceviamo molto di più di quello che riusciamo a dare. Ennesima riprova del fatto che noi donne siamo generose anche nella malattia».

E invece quello che è più duro da mandar giù tutti i giorni?
«Anche qui la risposta è semplice: la burocrazia. Se continuiamo di questo passo, con il medico sempre meno medico e sempre più obbligato a stare alle prese con foglie e scartoffie, la ricerca ne finirà strangolata».

C’è una frase che ama sentirsi dire dai suoi pazienti?
«Non una in particolare. Ma mi vengono in mente due piccole storie legate a due pazienti: la prima mi regalò un piccolo quadro per dirmi quanto mi fosse grata per averle regalato piu’ tempo, in cui c’era scritta la frase “sei la persona giusta nel posto giusto”. La seconda, invece, risale a una fase molto difficile che stavo attraversando nella mia vita: senza che io le avessi raccontato nulla, mi disse soltanto “Non si arrenda, lei e’ preziosa”, spiegandomi in seguito che aveva notato nei miei occhi un velo di tristezza».

E una frase che invece proprio non sopporta?
«Tutte quelle che mi fanno capire di non essere riuscita ad “arrivare” a una paziente, o che i miei sforzi non sono interpretati come dovrebbero. È la presa di coscienza di un fallimento, la cosa peggiore».

Le è mai capitato nel suo lavoro di sentirsi “più forte del cancro”?
«Mi sento più forte quando so di poter aggredire la malattia contando su armi sempre più nuove ed efficaci. E quando il paziente curato con un nuovo farmaco, frutto della ricerca clinica a cui mi applico con tutta me stessa, resta in vita più a lungo, quello è davvero il momento in cui sì, mi sento più forte del cancro».

“Da grande voglio fare il dottore”! (Mario Scartozzi)

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“Da grande voglio fare il dottore”!

Ricorda quando capì per la prima volta che avrebbe fatto il medico?
«Ero un bambino, saranno stati gli ultimi anni delle elementari. In famiglia stavamo aspettando il medico curante di mia madre, che veniva da un periodo in cui non era stata bene. Ricordo che mentre parlava, noi lo ascoltavamo in silenzio e con rispetto. Mia madre guarì e ne rimasi molto colpito. Così la prima cosa che le dissi fu: “Mamma, io da grande voglio fare come lui, guarire le persone”»

Come la presero i suoi genitori?
«Furono subito d’accordo, perché tendevano ad assecondare e sostenere le inclinazioni di noi figli. Certo, non sono figlio d’arte, ma ero molto risoluto, non mi fermai neanche davanti al fatto che non amavo la vista del sangue».

Davvero voleva fare il medico e non sopportava il sangue?
«Certo, ed è così ancora oggi. Sapevo da subito che non avrei mai fatto il chirurgo, perché ero molto più affascinato dal medico che guardava i “documenti”, le radiografie, per poi formulare una diagnosi e predisporre una terapia. E poi mi piaceva molto l’impatto sociale che aveva la figura del medico, il rispetto, la considerazione, la credibilità che ha questa figura».

E quale fu invece il momento in cui scelse di occuparsi di oncologia?
«In realtà furono due. Il primo arrivò al quarto anno di università, con la professoressa di patologia generale che iniziò a spiegare i meccanismi di trasformazione delle cellule che innescano i tumori. Mi resi conto subito di essere quasi incantato da quegli argomenti. Il secondo arrivò al sesto anno, con il professore di oncologia: riusciva a catturare la mia attenzione perché portava sempre casi concreti da cui partire. Ricordo che per quell’esame studiai come un matto perché per me valeva più di qualunque altro e volevo a tutti i costi prendere il massimo dei voti. E così fu»

Se non avesse fatto il medico, che cosa sarebbe stato oggi?
«Sono sempre stato un bambino ragazzino abbastanza “normale”, mai sognato di diventare un pilota di jet o un astronauta. Al liceo ho pensato per un po’ di dedicarmi in futuro al latino e al greco, con l’obiettivo dell’insegnamento. In famiglia ne parlammo a lungo, poi mio fratello maggiore mi convinse a restare sul versante medicina. Ci scherzo ancora oggi con lui: “Vedi? Alla fine sono riuscito ad abbinare le due cose, perché sono un medico e nello stesso tempo insegno ai ragazzi dell’università…”».

Nel tempo libero che cosa le piace fare?
«Sono un grande appassionato di romanzi storici e delle ricostruzioni dei grandi fatti del passato. Adoro il genere fantasy: da bambino e adolescente ero un tipico “nerd”: amavo la fantascienza, giocavo tanto ai videogiochi, ero pronto a mollare tutto per una partita di Dungeons and dragons, non certo per una partita di calcio o di basket. Resto convinto che quella è un tipo di formazione che in qualche modo predispone a vedere le cose da un punto di vista completamente diverso, sviluppa il pensiero laterale. Certo, la medicina è per definizione l’applicazione dei risultati scientifici, delle linee guida, ma tutto ciò che c’è prima di questo è pensiero laterale, è fantasy, è immaginazione di meccanismi nuovi per capire dei bersagli nuovi».

L’aspetto più bello della sua professione?
«È quello più complicato: il rapporto umano. Le capacità di relazione che servono per fare il lavoro dell’oncologo medico, ancor più del medico di altre specializzazioni, sono superiori. Le persone che curiamo e seguiamo sono all’apice dello stress dell’essere umano, e reagiscono in maniera molto variabile e potente. Ecco perché l’aspetto più affascinante è gestire questa tipologia di stress, che ovviamente ci coinvolge: anche il più distaccato dei medici oncologi non è immune dalle parole e dagli atti di un suo paziente, dalle conseguenze dello stress sugli altri».

Ma questa capacità di instaurare un rapporto umano si impara o è innata?
«Come tutte le cose, ci sono alcuni di noi che sono più empatici per natura. Ma penso che questa capacità si possa anche imparare, per poi migliorarla con l’allenamento. Le capacità di interazione, per un medico, non è un valore aggiunto: è un valore indispensabile. Posso non essere portato per questo meccanismi, ma uno standard minimo devi averlo per questo lavoro, altrimenti non lo puoi fare».

C’è una frase che ama sentirsi dire dai suoi pazienti?
«È piuttosto un atteggiamento: mi piace tantissimo e torno a casa contento quando ridono. Sono un tipo ironico e autoironico, cerco di instaurare col paziente un rapporto anche leggero per cercare di rilassare i miei pazienti e i loro familiari. Quando capisco di esserci riuscito fino al punto di vederli sorridere, nonostante la situazione in cui si trovano, per me è il massimo».

Le è mai capitato di sentirsi “più forte del cancro”?
«Sì, tante volte. Mi sento dalla parte che ha vinto quando la terapia funziona, quando vedo che le cose vanno meglio concretamente, le metastasi che scompaiono o si riducono. È in quel momento che sì, mi sento dalla parte del vincitore».

Nessun camice in famiglia, ma… (Fortunato Ciardiello)

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Nessun camice in famiglia, ma…

Professore, ricorda quando scelse di fare il medico?
«Fu una decisione che maturò abbastanza tardi. Insomma, non lo sognavo fin da bambino, ma ci arrivai negli ultimi due anni di liceo. Non ricordo un elemento scatenante né un momento preciso: fu un processo abbastanza naturale, gradualmente mi resi conto che la medicina mi avrebbe entusiasmato».

Forse perché nella sua famiglia qualcuno già indossava il camice?
«No, è il contrario. Non ero figlio d’arte, il rapporto con la medicina, in casa mia, era quello che poteva qualunque altra famiglia di cittadini che di tanto in tanto si ritrovano a essere pazienti».

Come ricorda il periodo degli studi all’università?
«Ho sempre amato studiare e sempre con ottimi risultati. Affrontare una delle facoltà più lunghe e impegnative non fu per me un peso, ma un percorso che feci con grande entusiasmo. Al terzo anno, davanti all’esame di patologia generale, rimasi affascinato dai meccanismi delle malattie, dalle alterazioni molecolari. Ma la vera folgorazione per l’oncologia mi arrivò l’anno successivo, studiando per prepararmi all’esame di Oncologia Medica. Capii che il mio futuro sarebbe stato quello, volevo a tutti i costi fare qualcosa di utile per decifrare e contribuire a combattere il cancro».

A proposito di esami: ce n’è stato qualcuno che la fece penare più degli altri?
«Eccome: anatomia. Eccessivamente difficile, durissimo, quanto l’ho odiato… Pensi che a lungo, anche dopo laureato, ho avuto un sogno ricorrente: l’università aveva smarrito la documentazione relativa proprio a quell’esame e quindi avrei dovuto ripeterlo. Mi risvegliavo sempre con l’ansia…».

Che cosa l’affascina in particolare dell’oncologia?
«Mi laureai nel 1984, dunque ho avuto la fortuna di cominciare in un periodo d’oro per la ricerca diretta a superare l’uso della chemioterapia. E ancora oggi l’oncologia è in rapidissima evoluzione, c’è tanto da studiare, da ricercare, è una continua sfida intellettuale e culturale».

Che cosa fa nel tempo libero?
«Sono un accanito lettore, in particolare di romanzi e saggi storici. Una passione che mi porto dietro da una vita, già al liceo consumavo pagine su pagine. Oggi, compatibilmente con gli impegni, continuo a mantenermi su ottime medie: più o meno riesco a leggere una ventina di libri l’anno. Mi piace perdermi nelle librerie, mi lascio catturare dalle copertine, dai titoli, riprendo in mano i classici… E poi c’è la mia seconda grande passione».

Quale?
«La fotografia, fin da bambino. Mi piace scattare soprattutto in esterno, durante i miei viaggi: preferisco ritrarre panorami, scorci naturalistici, fauna selvaggia. Mi considero un semplice dilettante».

L’aspetto più bello della sua professione?
«Sono due: la possibilità di insegnare all’università, perché mi consente di restare in costante contatto con le nuove generazioni dei futuri medici; e la ricerca scientifica, perché assistere al percorso della ricerca che sfocia in una terapia oncologica efficace è quanto di più appagante ci possa essere».

E invece quello che le piace di meno?
«Più ancora che la burocrazia, direi la sofferenza dei pazienti, gli insuccessi terapeutici. I medici oncologi sono tra i più a rischio di “burn out”: è molto difficile riuscire a lasciare fuori dalla porta di casa il proprio lavoro, quando è occuparsi di cancro. Non ci si abitua mai al dolore dei pazienti o, peggio ancora, alla loro morte».

Professore, si è mai sentito “più forte del cancro”?
«Ogni giorno i progressi della ricerca aprono spiragli sempre nuovi per la cura e per la guarigione dei pazienti. La sopravvivenza, ad esempio, è più lunga di un tempo. Ecco, sentirsi più forti del cancro è un processo continuo, fatto di piccoli passi. Il tumore oggi non è più un “male incurabile” in assoluto: certo, alcune forme diagnosticate in fase metastatica danno tuttora grandi problemi; ma tantissime altre possono contare su terapie e trattamenti molto efficaci».

Dalla radio al teatro, e poi la medicina (Giuseppe Curigliano)

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Dalla radio al teatro, e poi la medicina

A che età capì che da grande avrebbe fatto il medico?
«Poco prima dell’adolescenza, ero ancora un ragazzino. Mi aveva incuriosito la figura del medico curante della nostra famiglia, lo vedevo arrivare con la sua aura di rispettabilità, autorevolezza e prestigio. Avevo capito quanto fosse importante il lavoro che faceva, aiutare chi sta male, dunque mi prefissai di diventare come lui. Non essendo figlio d’arte, mio papà era un operaio e la mamma una casalinga, avrei sicuramente avuto un percorso difficile. Ma all’epoca neanche me ne resi conto».

Chissà quanti sacrifici fecero i suoi genitori per avviarla agli studi in medicina…
«Sì, tanti. Ma solo fino a quando compii diciott’anni: da quel momento capii che era più giusto arrangiarmi da solo, dunque cominciai a fare qualche lavoretto per mantenermi agli studi».

Di che tipo di lavori si trattava?
«Ho fatto un po’ di tutto, da piccole parti in teatro fino al deejay in una radio locale».

Quali ricordi ha del suo periodo universitario?
«Sono sempre stato uno che amava studiare, fin da bambino. All’università ebbi un solo intoppo: l’esame di fisiologia. Fu il più difficile, quello che mi fece prendere il voto più basso di tutta la mia carriera accademica».

E ci rimase male?
«Moltissimo, soprattutto perché avevo studiato tanto. Riflettendo sulle cause di quella mia brutta prestazione, ho sempre dato la colpa al fatto che si trattava di un quiz a risposta multipla: non ho mai amato quel genere di test».

Ricorda come nacque il suo interesse per l’oncologia?
«Intorno al terzo o quarto anno accademico. Mi ero accorto che i malati che stavano peggio, quelli per i quali c’era più bisogno di fare qualcosa, erano proprio i pazienti oncologici. In più, esistevano ancora pochi farmaci a disposizione, giusto due o tre. Mi dissi: se ho scelto di fare il medico per aiutare chi ha più bisogno, quale altro settore potrei scegliere migliore di questo? Tra l’altro, non c’erano neanche così tanti studenti interessati. Fu una delle scelte più azzeccate della
mia vita».

E ci rimase male?
«Moltissimo, soprattutto perché avevo studiato tanto. Riflettendo sulle cause di quella mia brutta prestazione, ho sempre dato la colpa al fatto che si trattava di un quiz a risposta multipla: non ho
mai amato quel genere di test».

Ricorda come nacque il suo interesse per l’oncologia?
«Intorno al terzo o quarto anno accademico. Mi ero accorto che i malati che stavano peggio, quelli per i quali c’era più bisogno di fare qualcosa, erano proprio i pazienti oncologici. In più, esistevano ancora pochi farmaci a disposizione, giusto due o tre. Mi dissi: se ho scelto di fare il medico per aiutare chi ha più bisogno, quale altro settore potrei scegliere migliore di questo? Tra l’altro, non c’erano neanche così tanti studenti interessati. Fu una delle scelte più azzeccate della mia vita».

Si è mai chiesto che cos’altro sarebbe diventato, se non avesse fatto il medico oncologo?
«Di sicuro l’avvocato. Alle scuole medie e al liceo ricordo che mi piaceva moltissimo la legge, gli antichi codici, i riferimenti all’antica Grecia. Ma in genere tutte le discipline umanistiche mi hanno
sempre attratto molto».

E oggi, quando non lavora, come passa il suo tempo libero?
«Prima che cominciasse la pandemia andavo appena possibile a teatro: non ho un genere preferito, seguo un po’ di tutto, dalle commedie agli autori più classici. Con le sale chiuse, ho ripreso la mia vecchia passione della lettura: anche in questo caso non ho un genere prediletto rispetto agli altri, mi considero un lettore onnivoro».

L’aspetto più bello della sua professione?
«Nessun dubbio: il rapporto con il paziente. Sapere di poterlo aiutare, vedere la sua reazione soddisfatta e riconoscente quando capisce cosa hai fatto per lui. Sono sensazioni impagabili».

E quello invece che le piace di meno?
«Anche qui, risposta facile: dover accettare la sconfitta di un malato che peggiora, un malato che perde la sua battaglia con il cancro».

Le capita mai di sentirsi più forte del cancro?
«Sì, certo che capita. Succede quando sai di poter contare su farmaci sempre più efficaci e moderni, capaci di allungare la vita del paziente o addirittura avere la meglio sulla malattia. E questo per fortuna è sempre più frequente, se consideriamo che in oncologia le armi a disposizione di noi medici sono in continua evoluzione».

Qual è la cosa che la emoziona di più in un paziente?
«Quando mi dice semplicemente “grazie”. Le suonerà strano, ma sta diventando sempre meno frequente, purtroppo. Sembra quasi che, per alcune persone, noi medici abbiamo perso quella considerazione e quel rispetto per il nostro lavoro che un tempo erano invece assoluti».

Le capita mai di perdere la pazienza con un malato che ha in cura?
«Certo, e sa quando succede? Quando, nonostante tutti i miei sforzi per spiegargli bene ogni mia decisione, lui si incaponisce nelle sue convinzioni, non si rende conto di ciò che ho fatto o, peggio, non lo accetta. Certe volte è proprio dura».