“Da grande voglio fare il dottore”! (Mario Scartozzi)

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PIÙ FORTI DEL CANCRO

“Da grande voglio fare il dottore”!

Ricorda quando capì per la prima volta che avrebbe fatto il medico?
«Ero un bambino, saranno stati gli ultimi anni delle elementari. In famiglia stavamo aspettando il medico curante di mia madre, che veniva da un periodo in cui non era stata bene. Ricordo che mentre parlava, noi lo ascoltavamo in silenzio e con rispetto. Mia madre guarì e ne rimasi molto colpito. Così la prima cosa che le dissi fu: “Mamma, io da grande voglio fare come lui, guarire le persone”»

Come la presero i suoi genitori?
«Furono subito d’accordo, perché tendevano ad assecondare e sostenere le inclinazioni di noi figli. Certo, non sono figlio d’arte, ma ero molto risoluto, non mi fermai neanche davanti al fatto che non amavo la vista del sangue».

Davvero voleva fare il medico e non sopportava il sangue?
«Certo, ed è così ancora oggi. Sapevo da subito che non avrei mai fatto il chirurgo, perché ero molto più affascinato dal medico che guardava i “documenti”, le radiografie, per poi formulare una diagnosi e predisporre una terapia. E poi mi piaceva molto l’impatto sociale che aveva la figura del medico, il rispetto, la considerazione, la credibilità che ha questa figura».

E quale fu invece il momento in cui scelse di occuparsi di oncologia?
«In realtà furono due. Il primo arrivò al quarto anno di università, con la professoressa di patologia generale che iniziò a spiegare i meccanismi di trasformazione delle cellule che innescano i tumori. Mi resi conto subito di essere quasi incantato da quegli argomenti. Il secondo arrivò al sesto anno, con il professore di oncologia: riusciva a catturare la mia attenzione perché portava sempre casi concreti da cui partire. Ricordo che per quell’esame studiai come un matto perché per me valeva più di qualunque altro e volevo a tutti i costi prendere il massimo dei voti. E così fu»

Se non avesse fatto il medico, che cosa sarebbe stato oggi?
«Sono sempre stato un bambino ragazzino abbastanza “normale”, mai sognato di diventare un pilota di jet o un astronauta. Al liceo ho pensato per un po’ di dedicarmi in futuro al latino e al greco, con l’obiettivo dell’insegnamento. In famiglia ne parlammo a lungo, poi mio fratello maggiore mi convinse a restare sul versante medicina. Ci scherzo ancora oggi con lui: “Vedi? Alla fine sono riuscito ad abbinare le due cose, perché sono un medico e nello stesso tempo insegno ai ragazzi dell’università…”».

Nel tempo libero che cosa le piace fare?
«Sono un grande appassionato di romanzi storici e delle ricostruzioni dei grandi fatti del passato. Adoro il genere fantasy: da bambino e adolescente ero un tipico “nerd”: amavo la fantascienza, giocavo tanto ai videogiochi, ero pronto a mollare tutto per una partita di Dungeons and dragons, non certo per una partita di calcio o di basket. Resto convinto che quella è un tipo di formazione che in qualche modo predispone a vedere le cose da un punto di vista completamente diverso, sviluppa il pensiero laterale. Certo, la medicina è per definizione l’applicazione dei risultati scientifici, delle linee guida, ma tutto ciò che c’è prima di questo è pensiero laterale, è fantasy, è immaginazione di meccanismi nuovi per capire dei bersagli nuovi».

L’aspetto più bello della sua professione?
«È quello più complicato: il rapporto umano. Le capacità di relazione che servono per fare il lavoro dell’oncologo medico, ancor più del medico di altre specializzazioni, sono superiori. Le persone che curiamo e seguiamo sono all’apice dello stress dell’essere umano, e reagiscono in maniera molto variabile e potente. Ecco perché l’aspetto più affascinante è gestire questa tipologia di stress, che ovviamente ci coinvolge: anche il più distaccato dei medici oncologi non è immune dalle parole e dagli atti di un suo paziente, dalle conseguenze dello stress sugli altri».

Ma questa capacità di instaurare un rapporto umano si impara o è innata?
«Come tutte le cose, ci sono alcuni di noi che sono più empatici per natura. Ma penso che questa capacità si possa anche imparare, per poi migliorarla con l’allenamento. Le capacità di interazione, per un medico, non è un valore aggiunto: è un valore indispensabile. Posso non essere portato per questo meccanismi, ma uno standard minimo devi averlo per questo lavoro, altrimenti non lo puoi fare».

C’è una frase che ama sentirsi dire dai suoi pazienti?
«È piuttosto un atteggiamento: mi piace tantissimo e torno a casa contento quando ridono. Sono un tipo ironico e autoironico, cerco di instaurare col paziente un rapporto anche leggero per cercare di rilassare i miei pazienti e i loro familiari. Quando capisco di esserci riuscito fino al punto di vederli sorridere, nonostante la situazione in cui si trovano, per me è il massimo».

Le è mai capitato di sentirsi “più forte del cancro”?
«Sì, tante volte. Mi sento dalla parte che ha vinto quando la terapia funziona, quando vedo che le cose vanno meglio concretamente, le metastasi che scompaiono o si riducono. È in quel momento che sì, mi sento dalla parte del vincitore».