ESMO CONGRESS 2022 PER PARIGI
PIÙ FORTI DEL CANCRO
Dalla radio al teatro, e poi la medicina
A che età capì che da grande avrebbe fatto il medico?
«Poco prima dell’adolescenza, ero ancora un ragazzino. Mi aveva incuriosito la figura del medico curante della nostra famiglia, lo vedevo arrivare con la sua aura di rispettabilità, autorevolezza e prestigio. Avevo capito quanto fosse importante il lavoro che faceva, aiutare chi sta male, dunque mi prefissai di diventare come lui. Non essendo figlio d’arte, mio papà era un operaio e la mamma una casalinga, avrei sicuramente avuto un percorso difficile. Ma all’epoca neanche me ne resi conto».
Chissà quanti sacrifici fecero i suoi genitori per avviarla agli studi in medicina…
«Sì, tanti. Ma solo fino a quando compii diciott’anni: da quel momento capii che era più giusto arrangiarmi da solo, dunque cominciai a fare qualche lavoretto per mantenermi agli studi».
Di che tipo di lavori si trattava?
«Ho fatto un po’ di tutto, da piccole parti in teatro fino al deejay in una radio locale».
Quali ricordi ha del suo periodo universitario?
«Sono sempre stato uno che amava studiare, fin da bambino. All’università ebbi un solo intoppo: l’esame di fisiologia. Fu il più difficile, quello che mi fece prendere il voto più basso di tutta la mia carriera accademica».
E ci rimase male?
«Moltissimo, soprattutto perché avevo studiato tanto. Riflettendo sulle cause di quella mia brutta prestazione, ho sempre dato la colpa al fatto che si trattava di un quiz a risposta multipla: non ho mai amato quel genere di test».
Ricorda come nacque il suo interesse per l’oncologia?
«Intorno al terzo o quarto anno accademico. Mi ero accorto che i malati che stavano peggio, quelli per i quali c’era più bisogno di fare qualcosa, erano proprio i pazienti oncologici. In più, esistevano ancora pochi farmaci a disposizione, giusto due o tre. Mi dissi: se ho scelto di fare il medico per aiutare chi ha più bisogno, quale altro settore potrei scegliere migliore di questo? Tra l’altro, non c’erano neanche così tanti studenti interessati. Fu una delle scelte più azzeccate della
mia vita».
E ci rimase male?
«Moltissimo, soprattutto perché avevo studiato tanto. Riflettendo sulle cause di quella mia brutta prestazione, ho sempre dato la colpa al fatto che si trattava di un quiz a risposta multipla: non ho
mai amato quel genere di test».
Ricorda come nacque il suo interesse per l’oncologia?
«Intorno al terzo o quarto anno accademico. Mi ero accorto che i malati che stavano peggio, quelli per i quali c’era più bisogno di fare qualcosa, erano proprio i pazienti oncologici. In più, esistevano ancora pochi farmaci a disposizione, giusto due o tre. Mi dissi: se ho scelto di fare il medico per aiutare chi ha più bisogno, quale altro settore potrei scegliere migliore di questo? Tra l’altro, non c’erano neanche così tanti studenti interessati. Fu una delle scelte più azzeccate della mia vita».
Si è mai chiesto che cos’altro sarebbe diventato, se non avesse fatto il medico oncologo?
«Di sicuro l’avvocato. Alle scuole medie e al liceo ricordo che mi piaceva moltissimo la legge, gli antichi codici, i riferimenti all’antica Grecia. Ma in genere tutte le discipline umanistiche mi hanno
sempre attratto molto».
E oggi, quando non lavora, come passa il suo tempo libero?
«Prima che cominciasse la pandemia andavo appena possibile a teatro: non ho un genere preferito, seguo un po’ di tutto, dalle commedie agli autori più classici. Con le sale chiuse, ho ripreso la mia vecchia passione della lettura: anche in questo caso non ho un genere prediletto rispetto agli altri, mi considero un lettore onnivoro».
L’aspetto più bello della sua professione?
«Nessun dubbio: il rapporto con il paziente. Sapere di poterlo aiutare, vedere la sua reazione soddisfatta e riconoscente quando capisce cosa hai fatto per lui. Sono sensazioni impagabili».
E quello invece che le piace di meno?
«Anche qui, risposta facile: dover accettare la sconfitta di un malato che peggiora, un malato che perde la sua battaglia con il cancro».
Le capita mai di sentirsi più forte del cancro?
«Sì, certo che capita. Succede quando sai di poter contare su farmaci sempre più efficaci e moderni, capaci di allungare la vita del paziente o addirittura avere la meglio sulla malattia. E questo per fortuna è sempre più frequente, se consideriamo che in oncologia le armi a disposizione di noi medici sono in continua evoluzione».
Qual è la cosa che la emoziona di più in un paziente?
«Quando mi dice semplicemente “grazie”. Le suonerà strano, ma sta diventando sempre meno frequente, purtroppo. Sembra quasi che, per alcune persone, noi medici abbiamo perso quella considerazione e quel rispetto per il nostro lavoro che un tempo erano invece assoluti».
Le capita mai di perdere la pazienza con un malato che ha in cura?
«Certo, e sa quando succede? Quando, nonostante tutti i miei sforzi per spiegargli bene ogni mia decisione, lui si incaponisce nelle sue convinzioni, non si rende conto di ciò che ho fatto o, peggio, non lo accetta. Certe volte è proprio dura».