ESMO CONGRESS 2022 PER PARIGI
PIÙ FORTI DEL CANCRO
Nessun camice in famiglia, ma…
Professore, ricorda quando scelse di fare il medico?
«Fu una decisione che maturò abbastanza tardi. Insomma, non lo sognavo fin da bambino, ma ci arrivai negli ultimi due anni di liceo. Non ricordo un elemento scatenante né un momento preciso: fu un processo abbastanza naturale, gradualmente mi resi conto che la medicina mi avrebbe entusiasmato».
Forse perché nella sua famiglia qualcuno già indossava il camice?
«No, è il contrario. Non ero figlio d’arte, il rapporto con la medicina, in casa mia, era quello che poteva qualunque altra famiglia di cittadini che di tanto in tanto si ritrovano a essere pazienti».
Come ricorda il periodo degli studi all’università?
«Ho sempre amato studiare e sempre con ottimi risultati. Affrontare una delle facoltà più lunghe e impegnative non fu per me un peso, ma un percorso che feci con grande entusiasmo. Al terzo anno, davanti all’esame di patologia generale, rimasi affascinato dai meccanismi delle malattie, dalle alterazioni molecolari. Ma la vera folgorazione per l’oncologia mi arrivò l’anno successivo, studiando per prepararmi all’esame di Oncologia Medica. Capii che il mio futuro sarebbe stato quello, volevo a tutti i costi fare qualcosa di utile per decifrare e contribuire a combattere il cancro».
A proposito di esami: ce n’è stato qualcuno che la fece penare più degli altri?
«Eccome: anatomia. Eccessivamente difficile, durissimo, quanto l’ho odiato… Pensi che a lungo, anche dopo laureato, ho avuto un sogno ricorrente: l’università aveva smarrito la documentazione relativa proprio a quell’esame e quindi avrei dovuto ripeterlo. Mi risvegliavo sempre con l’ansia…».
Che cosa l’affascina in particolare dell’oncologia?
«Mi laureai nel 1984, dunque ho avuto la fortuna di cominciare in un periodo d’oro per la ricerca diretta a superare l’uso della chemioterapia. E ancora oggi l’oncologia è in rapidissima evoluzione, c’è tanto da studiare, da ricercare, è una continua sfida intellettuale e culturale».
Che cosa fa nel tempo libero?
«Sono un accanito lettore, in particolare di romanzi e saggi storici. Una passione che mi porto dietro da una vita, già al liceo consumavo pagine su pagine. Oggi, compatibilmente con gli impegni, continuo a mantenermi su ottime medie: più o meno riesco a leggere una ventina di libri l’anno. Mi piace perdermi nelle librerie, mi lascio catturare dalle copertine, dai titoli, riprendo in mano i classici… E poi c’è la mia seconda grande passione».
Quale?
«La fotografia, fin da bambino. Mi piace scattare soprattutto in esterno, durante i miei viaggi: preferisco ritrarre panorami, scorci naturalistici, fauna selvaggia. Mi considero un semplice dilettante».
L’aspetto più bello della sua professione?
«Sono due: la possibilità di insegnare all’università, perché mi consente di restare in costante contatto con le nuove generazioni dei futuri medici; e la ricerca scientifica, perché assistere al percorso della ricerca che sfocia in una terapia oncologica efficace è quanto di più appagante ci possa essere».
E invece quello che le piace di meno?
«Più ancora che la burocrazia, direi la sofferenza dei pazienti, gli insuccessi terapeutici. I medici oncologi sono tra i più a rischio di “burn out”: è molto difficile riuscire a lasciare fuori dalla porta di casa il proprio lavoro, quando è occuparsi di cancro. Non ci si abitua mai al dolore dei pazienti o, peggio ancora, alla loro morte».
Professore, si è mai sentito “più forte del cancro”?
«Ogni giorno i progressi della ricerca aprono spiragli sempre nuovi per la cura e per la guarigione dei pazienti. La sopravvivenza, ad esempio, è più lunga di un tempo. Ecco, sentirsi più forti del cancro è un processo continuo, fatto di piccoli passi. Il tumore oggi non è più un “male incurabile” in assoluto: certo, alcune forme diagnosticate in fase metastatica danno tuttora grandi problemi; ma tantissime altre possono contare su terapie e trattamenti molto efficaci».