Tumore rene, una ‘doppietta’ di immunoterapie aumenta la sopravvivenza libera da altri trattamenti

ESMO CONGRESS 2019 PER L’ITALIA

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Tumore rene, una ‘doppietta’ di immunoterapie aumenta la sopravvivenza libera da altri trattamenti

23 ottobre 2018

Monaco

Nei pazienti con carcinoma a cellule renali avanzato o metastatico (RCC), precedentemente non trattati, la combinazione due molecole immunoterapiche, nivolumab e ipilimumab, è associata a una sopravvivenza libera da trattamento significativamente più lunga. Lo dimostra lo studio di fase 3 CheckMate-214, presentato al congresso della Società europea di oncologia medica (Esmo). Con un follow-up minimo di 30 mesi, il 36% dei pazienti trattati con la combinazione nivolumab più ipilimumab è ancora vivo e non necessita di una terapia successiva, rispetto al 16% dei pazienti a cui è stata somministrata una terapia standard. Dopo 2 anni, tra coloro che hanno interrotto la terapia, è libero da trattamento il 19% dei pazienti del gruppo di combinazione rispetto al 6% dell’altro gruppo.

“I risultati di questa analisi del CheckMate-214 – spiega David F. McDermott, direttore del programma di Immuno-Oncologia presso il Beth Israel Deaconess Medical Center – forniscono importanti informazioni sulla potenziale possibilità di ottenere un beneficio clinico duraturo con la combinazione di nivolumab e ipilimumab nei pazienti con carcinoma a cellule renali avanzato verso i quali vi è un rilevante bisogno clinico insoddisfatto”. Il carcinoma a cellule renali è il tipo di tumore del rene più comune negli adulti, responsabile ogni anno di oltre 140.000 morti nel mondo. L’RCC è circa due volte più comune negli uomini che nelle donne, con i tassi più alti in nord America e in Europa. A livello mondiale, il tasso di sopravvivenza a cinque anni nei pazienti con diagnosi di tumore del rene metastatico o avanzato, è del 12,1%.

Sarcomi: in arrivo nuovi farmaci molecolari e immunoterapia. L’esperta: “Nuove opportunità di cura anche per le forme infantili”

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Sarcomi: in arrivo nuovi farmaci molecolari e immunoterapia. L’esperta: “Nuove opportunità di cura anche per le forme infantili”

In corso a Roma il congresso annuale della Connective Tissue Oncology Society (CTOS)

Rari, con una incidenza di 1 caso ogni 1 milione abitanti in Italia ogni anno, ma molto aggressivi, i sarcomi infantili sono ‘orfani’ di cure ma arrivano per alcuni di essi, in particolare il fibrosarcoma infantile e il cordoma poco differenziato, terapie molecolari che bersagliano la proteina alterata responsabile dell’insorgenza di malattia, oltre a terapie antiangiogeniche per forme ossee recidivanti, prima non trattabili. Buoni dati preliminari per i sarcomi alveolari delle parti molli che sembrano poter rispondere all’immunoterapia con risposte parziali (39%) durevoli nel tempo.

Milano, 15 Novembre 2018 – La ricerca va avanti e offre importanti novità anche per i sarcomi, tumori rari con circa 5 diagnosi ogni 100 mila abitanti in Italia ogni anno, non più ‘orfani’ di possibilità terapeutiche. Difficili e delicati per le sedi di insorgenza tra cui ossa, spazio endocranico, tessuti molli, i sarcomi sono tumori ‘giovani’: colpiscono bambini, con forme anche congenite o sviluppate subito dopo la nascita, adolescenti e giovani adulti con meno di 40 anni. Un anno fa l’approvazione regolatoria di olaratumab in combinazione con doxorubicina come terapia di prima linea per i sarcomi dei tessuti molli in fase avanzata nei pazienti adulti. Oggi, per alcune forme di sarcomi che possono insorgere anche in età pediatrica arrivano, finalmente, farmaci a bersaglio (target) molecolare efficaci contro le proteine alterate che ‘attivano’ l’insorgenza del tumore: tra queste TRK presente tra gli altri nel fibrosarcoma infantile. Dati preliminari (pubblicati sul New England) di studi internazionali, cui ha partecipato anche l’Italia con l’Istituto Nazionale Tumori di Milano, attesterebbero la capacità di una nuova molecola (larotrectinab) di ridurre la malattia, tanto da riuscire a consentire in alcuni casi il passaggio da una chirurgia demolitiva, ovvero dall’imputazione dell’arto, a un intervento conservativo. Una elevata risposta si otterrebbe anche bersagliando ‘molecolarmente’ (tazemetostat) un’altra proteina, di nome EZH2 che si accende nel cordoma poco differenziato del bambino per la perdita di INI1, permettendo la riduzione o comunque il migliore controllo sull’evoluzione nel lungo periodo, mediamente un anno, di questo tumore che origina a livello endocranico e che è caratterizzato da una cattiva prognosi. Buone notizie anche per il sarcoma alveolare delle parti molli, sarcoma che colpisce adolescenti o adulti prima dei 40 anni, a prognosi grave perché già metastatico all’esordio in metà dei casi, il quale può rispondere all’immunoterapia, aprendo così una via di cura prima inesistente. Lo attesta uno studio su piccoli numeri, 18 casi, di cui 7 (39%) hanno mostrato una risposta parziale al trattamento diretto contro una specifica alterazione genetica (PD-L 1). Questi e altri temi saranno affrontati al meeting annuale della CTOS (Connective Tissue Oncology Society) in corso a Roma fino al 17 novembre).

“I sarcomi – racconta Ornella Gonzato, presidente dell’Associazione Paola per i Tumori muscolo-scheletrici, affiliata da quasi 10 anni alla CTOS – sono una classe di tumori rari, con una incidenza di circa 5 casi su 100 mila abitanti l’anno. La famiglia dei sarcomi comprende oltre 80 diversi tipi di tumori che possono insorgere in qualsiasi parte del corpo e colpire tutte le fasce di età, con un picco in età pediatrica e in quella avanzata. In particolare, i sarcomi dell’osso, quali ad esempio l’osteosarcoma e il sarcoma di Ewing, colpiscono principalmente i giovani mentre i sarcomi dei tessuti molli prevalentemente gli adulti. Attualmente, la maggior parte di queste malattie è ancora ‘orfana’ di specifici farmaci. Tuttavia, la ricerca sta avanzando con studi promettenti su farmaci – al momento non ancora approvati – che sembrerebbero evidenziare possibilità concrete di trattamento per alcuni tipi di sarcomi, in particolare quelli pediatrici, aprendo così a possibili futuri scenari di cura dopo circa 40 anni di ‘silenzio’ scientifico”.

Le attese si associano soprattutto a terapie molecolari. Spiega SilviaStacchiotti, oncologo medico presso la SC. di Oncologia Medica dei Tumori Mesenchimali dell’Adulto e Tumori Rari della Fondazione IRCCS Istituto Nazionale dei Tumori (INT) di Milano: “Studi condotti sul fibrosarcoma infantile, malattia congenita che presenta una alterazione riguardante la diffusione di una specifica proteina (TRK), attesterebbero che una terapia molecolare (larotrectinib) mirata a questo bersaglio (target-therapy) è in grado di garantire nella maggior parte dei pazienti una risposta terapeutica nella maggior parte dei pazienti e durevole nel tempo”. La terapia avrebbe dato risultati di efficacia in due contesti: in pazienti con indicazione a una chirurgica demolitiva che prevede l’amputazione dell’arto consentendo il passaggio a una chirurgia conservativa e in casi non operabili permettendo la riduzione della malattia o il controllo per un tempo mediamente superiore all’anno. “Anche il cordoma poco differenziato – aggiunge la dr.ssa Stacchiotti– che origina a livello endocranico (internamente al cranio) a seguito di una alterazione a carico della proteina INI1, con prognosi molto sfavorevole e tipico dei bambini, che possono presentare la malattia alla nascita, e degli adolescenti (il paziente più ‘vecchio’ segnalato sino ad oggi ha 20 anni), sembra beneficiare grazie una nuova terapia ‘targettata’ contro questo bersaglio. Uno studio recente cui sta partecipando anche la pediatria dell’INT in rappresentanza dell’Italia, sembra infatti attestare una riduzione della malattia con l’impiego di uno specifico farmaco molecolare (tazemetostat)”.

Per i sarcomi sembra anche aprirsi l’opzione dell’immunoterapia. “Per la prima volta – precisa l’oncologa – possiamo dire che non tutti sarcomi sono refrattari a questa via di cura. In particolare, il sarcoma alveolare delle parti molli, un tumore molto raro e grave in quando all’esordio si presenta già metastatico in metà dei casi, sembra rispondere bene a una immunoterapia con atezolizumab. Uno studio internazionale ancora su piccoli numeri (18 casi) dimostrerebbe che bersagliano una precisa alterazione genetica (PD-L 1) è possibile ottenere una risposta parziale in 7 casi su 18 (39%). Speriamo che questo tipo di farmaci si renda quindi presto disponibile per i nostri pazienti”.

“C’è dunque grande attesa nella comunità dei pazienti – conclude la dr.ssa Gonzato– perché i sarcomi, oltre a metter a rischio la vita, possono esser altamente invalidanti, creando ulteriore sofferenza, specie nei giovani. I progressi della chirurgia e dei trattamenti radianti assieme alla ricerca di farmaci efficaci, da quelli a bersaglio molecolare all’ immunoterapia, alimentano una concreta speranza di cura. In aggiunta, la ricerca sempre più approfondita della biologia molecolare di alcuni tipi di sarcoma sembrerebbe consentire per il futuro anche la possibilità di monitorare la malattia, durante il trattamento, tramite semplice prelievo di sangue per l’analisi del DNA circolante del tumore (cDNA). Oltre alla minor invasività del controllo, questo significherebbe per i pazienti poter sperare in terapie sempre più personalizzate sulla base della risposta individuale”.

Carlo Buffoli

Tumore del seno, non solo nuove cure per vincere la malattia Per i casi più gravi pronte le prime ‘raccomandazioni’ europee

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Tumore del seno, non solo nuove cure per vincere la malattia Per i casi più gravi pronte le prime ‘raccomandazioni’ europee

Presentato a Milano il documento europeo EWG (Expert Working Group), la nuova ‘road map’ politica per migliorare la gestione del tumore al seno metastatico

Ogni anno circa 5mila donne ricevono una diagnosi di carcinoma al seno metastatico e sono oltre 37 mila le italiane che convivono con questo tipo di carcinoma, più difficile da curare e con una sopravvivenza mediana di circa 2 anni e mezzo. Oggi la maggioranza dei casi di tumore al seno non metastatico guarisce, così queste pazienti più complesse sono spesso “dimenticate”: per riportare l’attenzione sulle loro esigenze e migliorarne la gestione arriva, realizzata con il contributo non condizionante di Lilly, questa vera e propria raccolta di raccomandazioni destinata ai decisori politici italiani ed europei. Il documento traccia un percorso chiaro e preciso per il futuro, puntando su un’assistenza imperniata sulla conoscenza, una collaborazione pan-europea ed un uso diffuso dei ‘real world data’ per migliorare il decorso clinico delle pazienti, un accesso paritario a cure e trattamenti e sistemi di sostegno alle pazienti e ai caregiver

Milano – Il tumore al seno metastatico rischia di essere una malattia “dimenticata”, sull’onda dei tanti successi contro il carcinoma mammario. Quando il cancro al seno non si diffonde altrove, la sopravvivenza è infatti dell’80% a dieci anni dalla diagnosi: insomma, sempre più spesso le donne guariscono. E si può essere tentati di credere che la guerra contro il tumore al seno sia stata vinta. Non è così, perché il 20-30% delle pazienti va incontro a ricadute e soprattutto il 5-10% riceve la diagnosi quando il tumore è già grave, metastatico, fin dall’inizio: accade a circa 5 mila italiane ogni anno, e sono oltre 37.000 le donne costrette a convivere con il carcinoma metastatico, più difficile da curare e con una sopravvivenza media di soli 2 anni e mezzo. In un prossimo futuro anche questo tumore potrà tuttavia diventare sempre più spesso e sempre più a lungo una malattia ‘cronica’, grazie alle novità in arrivo dalla ricerca scientifica in questo campo e grazie alla nuova road map politica sul tumore al seno metastatico dell’European Working Group (EWG), preparata grazie al supporto non condizionante di Lilly. Presentata oggi a Milano, è un documento che per la prima volta traccia un percorso chiaro e preciso per affrontare la malattia a livello italiano ed europeo e per gestire al meglio le pazienti. Quattro le macro-aree di intervento indicate dagli esperti: un’assistenza basata sulla conoscenza, aumentando l’utilizzo dei registri tumori, pensando a percorsi centrati sulle pazienti e migliorando l’adesione alle linee guida sul trattamento; una ricerca sempre più orientata alla raccolta di dati provenienti dalla ‘real worl practice’; un accesso paritario a cure e trattamenti, integrando nelle valutazioni di efficacia non solo la sopravvivenza ma anche la sopravvivenza libera da progressione di malattia e la qualità di vita delle pazienti; un maggior sostegno a pazienti e caregiver, per esempio migliorando le tutele sul lavoro e garantendo aiuti economici, psicologici e lavorativi anche ai familiari che si prendono cura delle pazienti.

“La percentuale di donne che guariscono da un tumore al seno continua a crescere – spiega Laura Biganzoli, presidente di Eusoma (European Society of Breast Cancer Specialists), direttrice del Centro di senologia dell’Ospedale di Prato e membro italiano di EWG – ma non possiamo focalizzarci solo sugli indubbi successi e perdere di vista quel 20-30% di donne che ha una ripresa di malattia e il 5-10% di pazienti che riceve la diagnosi di tumore metastatico fin dall’inizio. Il percorso di queste pazienti è molto eterogeneo non solo per le caratteristiche della malattia, molto variabili fra un caso e l’altro e con conseguente rischio di non aderenza alle linee guida ma anche per la presenza di disparità regionali nell’organizzazione e nel finanziamento del trattamento. Inoltre, la gestione complessiva di un paziente con malattia metastatica è più complessa rispetto a quella di pazienti non metastatici. È perciò molto importante portare l’attenzione su di loro, perché oltre alle migliori cure hanno diritto ad avere una vita sociale e lavorativa di buona qualità nonostante le difficoltà connesse ai trattamenti e ai frequenti controlli in ospedale; le pazienti con un carcinoma al seno metastatico devono poter vivere una vita normale fin quando possibile e la nostra speranza è che la nuova ‘road map’ politica, portando in primo piano le loro esigenze, costituisca un punto di svolta per aumentare la sensibilità pubblica nei confronti di questo tema troppo spesso dimenticato. Vogliamo sensibilizzare popolazione e politici sulle necessità delle pazienti, dare a queste donne gli strumenti per comprendere le decisioni terapeutiche e fornire a loro e ai caregiver, che sono spesso i familiari più stretti, reali tutele: il tumore al seno metastatico non colpisce soltanto la donna ma tutta la sua famiglia, è essenziale estendere il sostegno a tutte le persone coinvolte nella cura. E, soprattutto, avere sempre come obiettivo la qualità di vita delle donne affette da questa patologia”.

La ‘road map’ politica sottolinea chiaramente l’importanza di valutare non soltanto i mesi o gli anni di vita in più che i trattamenti possono garantire, ma soprattutto la sopravvivenza libera da progressione di malattia e una buona qualità di vita. Tutto questo si potrà raggiungere per esempio con una maggiore adesione alle linee guida per il trattamento, tuttora molto variabile: le linee guida per la diagnosi vengono seguite nel 90% dei casi, quelle per la terapia lo sono dal 20% al 74%, con una variabilità che dipende da difficoltà organizzative o dalla disponibilità di strutture.Eppure, attenersi alle raccomandazioni che derivano dall’evidenza scientifica incide molto positivamente sull’esito delle pazienti: per questo la road map sottolinea anche l’importanza dell’assistenza basata sulla conoscenza e l’importanza della collaborazione pan-europea ed un uso diffuso dei real world data per migliorare il decorso clinico delle pazienti.

“Il documento, oltre ad accrescere la consapevolezza di pazienti e decisori perché possa finalmente aumentare l’attenzione dedicata a queste donne – aggiunge Giuseppe Curigliano, condirettore del Programma Nuovi Farmaci del Dipartimento di Oncologia ed Emato-Oncologia dell’Università di Milano all’Istituto Europeo di Oncologia – ha l’obiettivo di creare un’alleanza fra medici, pazienti e aziende per far sì che le novità dalla ricerca clinica e farmacologica possano essere messe quanto prima a disposizione di tutte, ovunque nel Paese. Un passaggio rapido dalla ricerca scientifica alla pratica clinica e una maggiore diffusione delle innovazioni nella terapia che arrivano dalle sperimentazioni potranno migliorare il controllo del carcinoma al seno metastatico e la qualità di vita delle pazienti. Nei centri d’eccellenza le novità terapeutiche sono disponibili subito per tutte le pazienti, lo scopo è portare ovunque questi percorsi di trattamento virtuosi anche investendo di più nella formazione continua degli oncologi”.

“Il nostro Movimento è da sempre impegnato in prima linea a sostenere i diritti delle donne con tumore al seno metastatico, a ottenere per loro l’accesso a cure di qualità su tutto il territorio nazionale e a sconfiggere il nuovo tabù della metastasi con l’informazione e la sensibilizzazione – dichiara Rosanna D’Antona, Presidente di Europa Donna Italia; – Dalla nostra prima indagine nazionale dedicata a questa tipologia di pazienti è emerso che i loroprincipali bisogni sono il riconoscimento del loro status e il supporto. Per questo abbiamo coinvolto alcuni esponenti politici in un percorso volto a ottenere l’istituzione il 13 ottobre, come già negli USA, di una Giornata nazionale dedicata al tumore al seno metastatico. Da questo lavoro con alcuni parlamentari più sensibili sono scaturite due proposte di legge, depositate al Senato e alla Camera, che prevedono inoltre linee guida nazionali che regolamentino il percorso clinico e assistenziale di queste pazienti, accesso facilitato e omogeneo alle terapie innovative e istituzione di un osservatorio nazionale sul tumore al seno metastatico per implementarne la conoscenza e lo studio della casistica. Le raccomandazioni contenute nel documento europeo presentato oggi ci confermano che siamo sulla strada giusta, la stessa indicata per tutti i Paesi europei.”

Carlo Buffoli

Il punto sulla ricerca oncologica. Intervista al prof. Ciardiello

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Il punto sulla ricerca oncologica. Intervista al prof. Ciardiello

L’importanza della ricerca, troppo spesso messa in discussione da incompetenti sul web e sui social, è fondamentale per la cura di ogni malattia. In campo oncologico negli ultimi anni si sono registrati molti passi avanti, risultati impensabili fino allo scorso decennio e che già sono visibili da parte di molti pazienti. Una delle novità più importanti, propedeutico poi a nuove ricerche, sono i test genetici per analizzare il DNA, grazie ai quali è possibile individuare con precisione ogni dettaglio del tumore. Il giornalista Massimiliano Scafi, de ‘Il Giornale’, ne ha parlato con il prof. Fortunato Ciardiello, past president ESMO, e direttore del dipartimento di Oncoematologia dell’Università Vanvitelli di Napoli. Riportiamo qui il testo dell’articolo. In calce il link originale. Buona lettura.

Carlo Buffoli

“Gli studi stanno rivoluzionando le cure. Così hanno salvato 13 milioni di italiani”

L’ex presidente della Società oncologica europea: “Nei laboratori si fanno solo chiacchiere? Non è vero. Contro il cancro ottenuti risultati impensabili”

“E ora non si dica che la ricerca oncologica è ferma”. A parlare è di Fortunato Ciardiello, ordinario di oncologia medica alla Seconda università di Napoli e, fino a tre settimane fa, presidente dell’Esmo, la società europea di oncologia medica. Il test del sangue per identificare otto fra i tumori più aggressivi annunciato venerdì da un gruppo di ricercatori americani di Baltimora, negli Stati Uniti, può essere davvero la strada giusta per una diagnosi sempre più precoce.

Professor Ciardiello, pensa che questo test possa aiutare a prevenire il cancro?

“È un passo avanti essenziale. Finalmente, grazie alle nuove tecnologie sempre più sofisticate, riusciamo a individuare anche piccolissimi gruppi di cellule sospette che circolano nel sangue. E grazie a quelle possiamo risalire all’origine del tumore in una fase molto precoce”.

Eppure tanti oncologi, scettici, pensano che anche questa sia una di quelle ricerche fatte di parole ma mai di applicazioni pratiche.

“Questi oncologi sbagliano e tutto quello che è accaduto negli ultimi anni lo dimostra. Faccio un esempio: sei anni fa nessuno di noi riponeva speranze nell’immunoterapia. Oggi invece sono stati sviluppati farmaci intelligenti, a bersaglio mirato, efficaci e in grado di ridurre gli effetti collaterali delle terapie. Stesso discorso per le terapie ormonali”.

Forse le critiche puntano sulla lentezza dei lavori nei laboratori.

“Ovviamente non cambia tutto in tre mesi in oncologia. Ma è pericolosissimo dire che non si muove nulla. Il test del sangue che ora in America costa 500 dollari, 10 anni fa sarebbe costato 5000 dollari. E magari un giorno verrà addirittura passato dal sistema sanitario nazionale. Anche questi aspetti fanno parte di un sistema complesso che si evolve e che valuta anche i costi dei farmaci”.

A livello pratico, che vantaggi porta il test del sangue?

“Ne porterà parecchi, almeno su tre fronti. Su quello dello screening migliorerà i tempi delle diagnosi e la precisione con cui identificheremo le cellule tumorali. Avrà un’applicazione anche nella fase post operazione o post terapia perché consentirà di controllare, con un’analisi del sangue, se qualche cellula tumorale è ancora in circolazione nell’organismo. E infine servirà a correggere in corso d’opera una terapia, sostituendo farmaci che si stanno rivelando inefficaci con altri più specifici”.

Perché, ogni volta che viene pubblicata una scoperta, scoppiano anche le polemiche. Sarà mica in corso una guerra tra istituti di ricerca?

“No, nessuno si fa la guerra. C’è rivalità, questo si. Ma noi ricercatori abbiamo imbastito una collaborazione mondiale, un network indipendente dalla bandiera politica e dalla nazionalità”.

Gli italiani se la cavano?

“Direi di sì. Nel pool di questo ultimo studio c’erano anche ricercatori italiani. E poi ricordiamoci che le ricerche chiave per la biopsia liquida sono merito di Alberto Bardelli, università di Torino”.

Ci dica un altro risultato importante.

“Tre milioni di italiani, che ora sono in vita, sarebbero morti senza le terapie. Nel 1984, quando mi sono laureato io, solo una donna su due sopravviveva al tumore al seno. Ora il 90% vive dopo 5 anni dalle terapie. Sono risultati che solo 5 o 6 anni fa non avremmo nemmeno immaginato. In trent’anni abbiamo rivoluzionato le cure, quindi non possiamo non continuare a sperare e lavorare”.

Massimiliano Scafi

Tumore prostata, prevenzione possibile con finasteride

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Tumore prostata, prevenzione possibile con finasteride

A volte non è necessario temere i costi delle cure. Si scopre spesso che con farmaci poco costosi si possono ottenere grandi risultati. È il caso della finasteride, un farmaco usato da molti anni per la cura della ipertrofia prostatica benigna e che – da quanto dimostrato da uno studio pubblicato sul prestigioso New England Journal of Medicine – è efficate anche come strategia per la prevenzione del tumore della prostata, il più diffuso tra gli uomini e ancora oggi molto pericoloso se diagnosticato tardi. Secondo i ricercatori autori dello studio questo farmaco potrebbe avere un grande impatto sulla salute pubblica, perché affidabile ed economico. E garantirebbe una strategia aggiuntiva a quelle già in uso per la lotta contro il cancro alla prostata, la cui incidenza secondo le stime dell’American Cancer Society sarebbe in aumento.

La giornalista Sara Pero ne ha parlato su La Repubblica con il prof. Sergio Bracarda, direttore della Struttura Complessa di Oncologia Medica dell’Azienda Ospedaliera Santa Maria di Terni. Buona lettura

Carlo Buffoli 

 

Tumore della prostata, prevenzione sicura ed efficace con finasteride

Pubblicati sul New England Journal of Medicine i risultati di un ampio studio che ha coinvolto oltre 18mila persone, confermando l’utilità del farmaco nel ridurre il rischio di sviluppare questo tipo di cancro

“La finasteride è sicura, poco costosa ed efficace”. È questo il commento degli autori dell’ampio studio appena pubblicato sulla rivista scientifica New England Journal of Medicine. Il farmaco in questione – al momento utilizzato per l’ipertrofia prostatica benigna – sembra “funzionare” bene altresì come strategia preventiva del cancro alla prostata, anche a distanza di parecchio tempo. Non solo: non sembra esserci più alcun dubbio sull’esclusione che la sua assunzione possa essere associata a un aumentato rischio di sviluppare tumori più aggressivi. Sono questi i nuovi promettenti risultati di quello che rappresenta uno dei più ampi studi mai condotti su questa malattia oncologica – il Prostate Cancer Prevention Trial –, iniziato 25 anni fa coinvolgendo migliaia di persone selezionate tra il ‘93 e il ‘97 negli Stati Uniti e in Canada.

I RISULTATI DELLO STUDIO

“Da questa nuova analisi – commenta Sergio Bracarda, membro del Direttivo nazionale AIOM e Direttore della Struttura Complessa di Oncologia Medica dell’Azienda Ospedaliera Santa Maria di Terni – emerge un dato interessante sull’efficacia della finasteride nella prevenzione del cancro alla prostata, in quanto viene confermata la possibilità di ridurre del 25% il rischio di sviluppare questo tipo di tumore, che purtroppo rappresenta la prima malattia oncologica per incidenza negli uomini. Non viene invece confermato il rischio di sviluppar forme più aggressive di tumore prostatico, dato che era sembrato emergere in passato. Questo con un follow up di ben 18 anni su una popolazione di quasi 19mila pazienti”.

Stando alle conclusioni dei ricercatori il farmaco potrebbe avere un grande impatto sulla salute pubblica, perché affidabile ed economico. E garantirebbe una strategia aggiuntiva a quelle già in uso per la lotta contro il cancro alla prostata, la cui incidenza secondo le stime dell’American Cancer Society sarebbe in aumento.

VERSO NUOVE STRATEGIE DI PREVENZIONE ONCOLOGICA

“Quello che dovremo capire in futuro – riflette Bracarda – sarà a chi far assumere il farmaco: se a tutta la popolazione maschile o soltanto ai pazienti a maggior rischio di tumore. Questo perché c’è un aspetto da non sottovalutare nel caso in cui la finasteride venisse somministrata a tappeto nella popolazione maschile come strategia preventiva, e cioè la riduzione del valore del Psa (test Antigene Prostatico Specifico), uno dei principali parametri considerati per valutare il rischio di avere un cancro alla prostata”. Generalmente, infatti, questo valore risulta alterato (con valori più alti rispetto al normale) in presenza di carcinoma alla prostata. “Una buona comunicazione medico–paziente – conclude lo specialista – diventerà indispensabile per evitare di sottostimare, o al contrario indagare quando non ce ne sarebbe bisogno, il rischio di avere questa malattia oncologica”.

Sara Pero

Leucemia: una cura senza chemio approvata dal Regno Unito

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Leucemia: una cura senza chemio approvata dal Regno Unito

In campo ematologico le cosiddette cure ‘chemio free’ sono ormai sempre più numerose. Alcune come ibrutinib sono in attesa di approvazione anche in Italia, anche in prima linea, cioè come trattamento di prima scelta. Una nuova combinazione di farmaci si avvicina per coloro che soffrono di leucemia linfatica cronica recidivante/refrattaria. Approvata dalla Commissione Europea, ora ha passato l’esame anche del NICE inglese, la nostra AIFA. Un passo importante perché la leucemia linfatica cronica è il tumore del sangue più comune, colpisce circa 1200 persone ogni anno in Italia. La giornalista Sara Pero ne ha parlato sul quotidiano La Repubblica, intervistando il prof. Antonio Cuneo, direttore della sezione di Ematologia dell’Università di Ferrara e raccogliendo anche le speranze di Felice Bombaci, Responsabile nazionale dei Gruppi Ail Pazienti (Associazione Italiana contro le leucemie i linfomi e il mieloma onlus). Riportiamo qui il testo dell’articolo, mentre in calce troverete il link all’articolo originale. Buona lettura.

Carlo Buffoli

Leucemia linfatica cronica, il Regno Unito approva la prima terapia chemio–free

L’Inghilterra ha appena approvato l’associazione di venetoclax e rituximab per i pazienti che non rispondono allo standard di cura. Un’opzione terapeutica che presto potrebbe essere disponibile anche nel nostro Paese

UNA nuova combinazione di farmaci che non prevede chemioterapia e che risulta più efficace contro la leucemia linfatica cronica recidivante/refrattaria (LLC R/R) sarà resa disponibile da parte del Servizio Sanitario Inglese ai pazienti già trattati in precedenza con le terapie standard. Preceduto dall’ok della Commissione europea dello scorso ottobre, l’Istituto Nazionale per la Salute e l’Eccellenza Clinica (Nice) del Regno Unito ha infatti approvato la combinazione chemio–free con venetoclax e rituximab. “Una decisione molto positiva per i pazienti inglesi. Ci auguriamo che anche l’Agenzia Italiana del Farmaco concluda rapidamente il processo di negoziazione per questa nuova opzione terapeutica e renda disponibile la terapia ai pazienti italiani che convivono con questa malattia oncologica”, ha commentato Felice Bombaci, Responsabile nazionale dei Gruppi Ail Pazienti (Associazione Italiana contro le leucemie i linfomi e il mieloma onlus).

IN COSA CONSISTE LA NUOVA COMBINAZIONE

La leucemia linfatica cronica è il tumore ematologico più comune: colpisce circa 1.200 persone ogni anno in Italia e comporta un accumulo di linfociti maturi (un tipo di globuli bianchi) per lo più nel sangue e nel midollo osseo. Purtroppo, la maggior parte dei pazienti trattati per LLC ha una recidiva della malattia. Rispetto alla terapia standard, basata sull’utilizzo di rituximab (un anticorpo monoclonale) in combinazione con la chemioterapia, la nuova strategia è chemio–free e consiste nella somministrazione dello stesso tipo di anticorpo, il rituximab appunto, ma in combinazione con venetoclax, un farmaco – il primo della sua classe – che si lega selettivamente alla proteina del linfoma–2 dei linfociti B (BCL–2), la proteina che si accumula e impedisce alle cellule tumorali di subire il loro processo naturale di morte o autodistruzione (apoptosi). Grazie a questo nuovo farmaco è possibile inibire la proteina in questione, ripristinando così il processo di autodistruzione delle cellule tumorali.

PIÙ EFFICACE E CHEMIO–FREE

La raccomandazione positiva del Nice si basa sui risultati dello studio di fase III MURANO, durante il quale sono stati valutati efficacia e sicurezza di questo nuovo trattamento rispetto al regime standard di chemio–immunoterapia con bendamustina in combinazione con rituximab.

“I dati dello studio MURANO hanno evidenziato che l’associazione venetoclax più rituximab ‘chemio–free’ è in grado di offrire una sopravvivenza libera da progressione di malattia superiore rispetto alla chemio–immunoterapia convenzionale. Inoltre, per la prima volta, un regime terapeutico che include una nuova molecola, venetoclax, combinato con un anticorpo monoclonale, può essere somministrato per un periodo fisso, ovvero per due anni, alla fine dei quali i pazienti possono interrompere l’assunzione del farmaco”, sottolinea Antonio Cuneo, direttore della sezione di Ematologia dell’Università di Ferrara. “E permetterà – conclude Bombaci – di vivere più a lungo con la prospettiva di un periodo senza trattamento, consentendo inoltre risparmi per il sistema sanitario nazionale”.

Sara Pero

World Cancer Day. Il cancro si sconfigge con screening e diagnosi precoci

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World Cancer Day. Il cancro si sconfigge con screening e diagnosi precoci

La diagnosi precoce resta la vera arma per sconfiggere il cancro. Lo screening, cioè i controlli periodici cui tutti dovremo sottoporci in base alle linee guida, resta fondamentale per la diagnosi precose di tumore. Sono due passaggi chiave che oggi possono essere gestiti in modo semplice e con poco impegno. Ormai quasi tutte le forme di tumore possono essere sottoposte a screening. E’ quindi fondamentale informarsi dal proprio medico di medicina generale, e seguire le indicazioni che molte ASL in Italia inviano ai cittadini al compimento dell’anno di età previsto per il singolo screening. Non a caso è proprio in occasione della giornata mondiale contro il cancro ci sia questo appello ‘mondiale’ che deve essere ascoltato e rilanciato. Ci aiuta Tiziana Moriconi sul quotidiano La Repubblica. Riportiamo qui il testo dell’articolo, mentre in calce troverete il link all’articolo originale. Buona lettura

Carlo Buffoli

Più diagnosi precoci per battere il cancro. L’appello nel World Cancer Day

Nel 2018 oltre 18 milioni di persone hanno avuto una diagnosi di tumore: 5 milioni avrebbero potuto essere scoperti in fase precoce. E strategie migliori potrebbero evitare 3,4 milioni di morti all’anno

Cosa farai contro il cancro? Lunedì 4 febbraio è il World Cancer Day2019, la giornata giusta per provare a rispondere. Tutti possono contribuire alla campagna, mettendoci la faccia, letteralmente: creando poster o immagini da condividere sui social, lanciando un messaggio o raccontando la propria storia sul sito worldcancerday.org. Chiamare cittadini, organizzazioni, istituzioni e stati ad impegnarsi attivamente in azioni concrete è esattamente l’obiettivo di questo movimento globale, unico nel suo genere, promosso dalla Union for International Cancer Control (Uicc). Ed è anche il motivo conduttore della nuova campagna triennale che viene lanciata oggi “I am and I will” (“Io sono e sarò/farò”) sostenuta nel nostro Paese, tra gli altri, dalla Associazione italiana per la ricerca sul cancro (Airc) e dalla Società Italiana di Urologia Oncologica (SIUrO). Quest’anno i riflettori del World Cancer Day puntano sulla diagnosi precoce: nel 2018 – riporta la Uicc – nel mondo si sono avute più di 18 milioni di nuove diagnosi; oltre 5 milioni erano tumori a seno, cervice, colon–retto e cavo orale che potevano essere scoperti prima di quanto non sia avvenuto. Si stima, nel complesso, che mettendo in atto le strategie più appropriate per la prevenzione, la diagnosi precoce e il trattamento, ogni anno potrebbero essere evitate 3,4 milioni di morti.

QUANDO IL TUMORE E’ SCOPERTO ‘PRIMA’

Che in molti casi gli screening e la diagnosi precoce migliorino la sopravvivenza e la qualità di vita dei pazienti, riducendo il costo e la complessità dei trattamenti, è ormai assodato, come ha ricordato uno studio pubblicato sul British Medical Journal appena qualche giorno fa.

Negli Usa, il tasso di sopravvivenza a cinque anni per le donne con un tumore della cervice uterina diagnosticato in stadio avanzato è del 15% contro il 93% dei casi in cui non si è ancora diffuso. La stessa forbice si ritrova nei paesi meno ricchi. In India, per esempio, i tassi sono del 9 e del 78% rispettivamente. Nel nostro paese, i tumori al seno diagnosticati ogni anno in fase già metastatica sono circa il 7% dei nuovi casi (3.400 l’anno, oltre 8 al giorno), con una sopravvivenza a 5 cinque anni del 30% rispetto a una media dell’87%. Sul piano economico, nei paesi ad alto reddito i dati ci dicono che curare un tumore ai primi stadi è dalle due alle quattro volte meno dispendioso che trattare le fasi metastatiche. Tornando agli Usa, per esempio, si stima che la diagnosi precoce faccia risparmiare ogni anno circa 26 miliardi di dollari.

CONOSCERE PER PREVENIRE

Nel nostro paese la sopravvivenza a cinque anni è tra le più alte in Europa per molti tumori ed è aumentata rispetto al quinquennio precedente sia per gli uomini (54% contro il 51%) che per le donne (63% contro il 60%). Circa 3,3 milioni di persone hanno una diagnosi di cancro alle spalle. E sono diversi i fronti sui quali bisogna ancora agire. Il primo è la consapevolezza delle persone, che devono essere informate sui fattori di rischio e sulla prevenzione primaria, visto che solo modificando lo stile di vita si potrebbe evitare circa il 30% dei casi di cancro. Gli studi sulla prevenzione primaria continuano a confermarlo: una ricerca finanziata dall’Airc e condotta dal gruppo di Alberto Mantovani, direttore scientifico dell’Istituto Humanitas di Rozzano (MI), ha osservato che la diminuzione di circa il 30% dell’apporto calorico riduce la produzione di fattori di crescita e citochine che favoriscono l’infiammazione e la comparsa di tumori.

DIETA E NON SOLO

Altri due studi, anche questi realizzati con il contributo di Airc, suggeriscono che una dieta ricca di frutta e verdura e con quantità elevate di cereali ricchi di fibre faccia diminuire le probabilità di ammalarsi di tumori della testa e del collo, mentre l’olio di oliva extravergine avrebbe un ruolo protettivo nei confronti dei tumori intestinali. Se il fumo è poi un fattore di rischio noto per il cancro del polmone, non tutti sanno che è implicato in molte altre neoplasie, tra cui quelle uro–genitali. “Il fumo di sigaretta è responsabile, da solo, del 50% dei tumori al tratto urinario”, ricorda Alberto Lapini, presidente nazionale della SIUrO. Che sottolinea il peso di altri fattori come dieta, sedentarietà, consumo di alcolici e sovrappeso nell’insorgenza del cancro al rene e alla prostata. La prevenzione primaria passa anche per i vaccini. Basti pensare che in Australia, grazie a quello contro il papillomavirus umano (Hpv), si stima che il cancro al collo dell’utero sarà eradicato entro 20 anni. In Italia la campagna vaccinale è attualmente rivolta agli adolescenti di entrambi i sessi.

PUNTARE SULLA DIAGNOSI PRECOCE

Tornando alla diagnosi precoce, il primo fronte su cui agire è l’accesso agli screening oncologici. Che, per i tumori del collo dell’utero e del colon–retto, possono permettere di intervenire prima ancora che si sviluppi la neoplasia. Eppure questo dei programmi organizzati è un punto su cui permangono grandi differenze regionali, sia dal punto di vista dell’implementazione da parte delle istituzioni sia da quelle dell’aderenza da parte dei cittadini. Infatti, nelle regioni del Sud e delle isole, dove gli screening oncologici sono ancora poco diffusi, non si è osservata la riduzione della mortalità e dell’incidenza dei tumori della mammella, del colon–retto e della cervice uterina.

Vi sono poi le questioni della disponibilità dei servizi di patologia per la diagnosi, della possibilità di ottenere i referti in tempi rapidi, dell’accesso ai test genetici per i casi in cui sia evidente la familiarità, con la conseguente attivazione di percorsi di prevenzione ad hoc per le persone sane ma con mutazioni Brca, che presentano quindi un alto rischio di sviluppare alcuni tumori. Ogni Stato – dice la Uicc – si deve impegnare a ridurre lo stigma sociale del cancro, ad educare i cittadini, ad adottare e a far funzionare al meglio i programmi di screening per la popolazione e, in generale, a implementare programmi di diagnosi precoce, a rafforzare il percorso clinico – dal sospetto diagnostico al trattamento – e ad aumentare gli investimenti sul fronte della diagnosi.

Un ultimo punto su cui lavorare riguarda le barriere psicologiche che spesso portano le persone, in particolare gli uomini, a ignorare i possibili sintomi di una malattia oncologica. Remano contro la percezione del genere maschile nell’immaginario collettivo, la mancanza di messaggi per la salute diretti agli uomini, la paura e il senso di vergogna che ancora oggi accompagna il cancro. Nel Regno Unito, un’indagine ha rivelato che una persona su 4 non approfondirebbe un possibile sintomo per paura della diagnosi.

Tiziana Moriconi

Tumore della pelle: un aiuto dall’immunoterapia

ESMO CONGRESS 2019 PER L’ITALIA

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Tumore della pelle: un aiuto dall’immunoterapia

Un nuovo tipo di tumore, quello della pelle, entra a far parte di quelli che possono essere trattati con l’immunoterapia. Ad essere coinvolta è una forma rara di tumore della pelle, il carcinoma a cellule di Merkel. Ma come sempre, si parte da piccoli passi per poter poi sperare con nuovi studi di estendere le nuove cure anche alle forme più comuni di tumore della pelle. I promettenti risultati sono stati pubblicati sul prestigioso Journal of Clinical Oncology, e sono frutto di uno studio multicentrico americano nato dalla collaborazione tra i ricercatori del Bloomberg–Kimmel Institute for Cancer Immunotherapy di Baltimora e del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, insieme ad altri 11 centri medici statunitensi. Ne parla la giornalista Sara Pero sul quotidiano La Repubblica con una intervista al prof. Paolo Ascierto, che dirige l’Unità di Oncologia–Melanoma, Immunoterapia Oncologica e terapie innovative dell’Istituto Nazionale dei Tumori “Pascale” di Napoli. Riportiamo qui il testo dell’articolo, mentre in calce troverete il link all’articolo originale. Buona lettura

Carlo Buffoli

L’immunoterapia aumenta la sopravvivenza nel tumore raro della pelle

Pembrolizumab conferma la sua efficacia nel carcinoma a cellule di Merkel. In Italia non è disponibile con questa indicazione, ma a Napoli è in corso uno studio che ne sta valutando l’azione come primo trattamento da usare in questi pazienti

Si chiama pembrolizumab ed è un farmaco immunoterapico che viene già utilizzato nel nostro Paese per il trattamento di alcuni tipi di tumore, come il melanoma e il tumore del polmone, e che adesso sembra dare buoni risultati anche su un raro ma aggressivo tumore della pelle, il carcinoma a cellule di Merkel. Sono questi i risultati promettenti di uno studio multicentrico americano, pubblicato sul Journal of Clinical Oncology, e frutto della collaborazione tra i ricercatori del Bloomberg–Kimmel Institute for Cancer Immunotherapy di Baltimora e del Fred Hutchinson Cancer Research Center di Seattle, insieme ad altri 11 centri medici statunitensi. Una ricerca che ha confermato l’efficacia del farmaco che agisce sul sistema immunitario come strategia antitumorale in 50 pazienti oncologici colpiti da questa neoplasia rara e in stadio avanzato. Dati che sostengono la recente decisione dell’Fda – che risale a dicembre dello scorso anno – di accelerare l’approvazione del pembrolizumab come trattamento di prima linea per questo tipo di carcinoma, sia in pazienti adulti che pediatrici.

“Il pembrolizumab è un farmaco immunoterapico che aveva dato buoni risultati già in un trial clinico precedente, pubblicato sul New England nel 2016 e con questo nuovo studio se ne conferma l’efficacia anche per il trattamento del carcinoma a cellule di Merkel metastatico”, spiega Paolo Ascierto, direttore dell’Unità di Oncologia Melanoma, Immunoterapia Oncologica e Terapie Innovative dell’Istituto Nazionale Tumori Fondazione ‘G. Pascale’ di Napoli. Il farmaco testato nello studio agisce contro il carcinoma a cellule di Merkel bloccando PD–1, una molecola presente su alcuni globuli bianchi, spesso “manipolata” dalle cellule tumorali per scampare alla risposta del sistema immunitario. Pembrolizumab è stato utilizzato come prima linea di trattamento su 50 pazienti oncologici di circa 70 anni di età, ed è stato somministrato ogni tre settimane per circa due anni. I risultati dello studio suggeriscono come questo tipo di immunoterapia possa dare nella maggior parte dei casi buoni risultati: il farmaco ha funzionato bene per oltre la metà dei pazienti (56%).

IMMUNOTERAPIA BATTE CHEMIO

“Per un tumore così raro ma al tempo stesso particolarmente aggressivo come questo, la ricerca di nuove strategie antitumorali è fondamentale: fino a qualche anno fa – continua Ascierto – il carcinoma a cellule di Merkel metastatico veniva trattato esclusivamente con la chemioterapia, basata sui due farmaci antitumorali carboplatino e etoposide, che veniva somministrata per 6 cicli. Va detto però che raramente i pazienti riuscivano a sopravvivere oltre un anno dalla fine del trattamento. Negli ultimi anni, invece, l’immunoterapia è diventata l’opzione principale come strategia terapeutica, anche in prima linea, perché ci consente di ottenere in oltre il 50–60% dei pazienti una buona risposta, durevole nel tempo”.

L’IMMUNOTERAPIA APPROVATA IN ITALIA

Per il momento l’approvazione del pembrolizumab per questo tumore della pelle “non è stata richiesta né in Europa né in Italia – puntualizza Ascierto – e attualmente l’unica strategia immunoterapica disponibile nel nostro Paese per il carcinoma delle cellule di Merkel si basa su avelumab, un farmaco approvato sia negli Stati Uniti sia in Europa, e che ha avuto l’ok anche dall’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) lo scorso anno. Sebbene il bersaglio cellulare di questo farmaco sia diverso da quello colpito da pembrolizumab, entrambi agiscono rimuovendo lo stesso freno inibitorio stimolando l’attivazione del sistema immunitario sul tumore, pertanto possiamo dire che entrambi mostrano la stessa potenzialità terapeutica”.

IN CORSO UNO STUDIO IN ITALIA SUL PEMBROLIZUMAB

In questo momento, aggiunge Ascierto, “è in corso uno studio prospettico di fase II sull’efficacia di pembrolizumab come prima linea di trattamento per i pazienti con carcinoma a cellule di Merkel adulti e pediatrici”, che conclude: “Si tratta di un trial clinico che coinvolge l’Italia e di cui il nostro Istituto è il centro coordinatore nazionale. Al momento è in corso l’arruolamento dei pazienti, ma prevediamo di ottenere i primi risultati entro i prossimi due anni”.

COS’È IL CARCINOMA A CELLULE DI MERKEL

Si tratta di una rara forma di tumore della pelle, che si sviluppa da alcune cellule recettoriali localizzate sotto la cute, dette appunto cellule di Merkel. Una neoplasia molto aggressiva che colpisce ogni anno in Italia circa 250 persone, e per la quale la diagnosi precoce è fondamentale, visto l’alto rischio per questi pazienti di incorrere in metastasi. Questa malattia oncologica si manifesta generalmente come un nodulo color carne, rosso porpora–bluastro, sulla pelle del viso, sulla testa o sul collo, ma è possibile (sebbene meno frequentemente) che si faccia avanti anche in altre zone del corpo. Tra i fattori di rischio di questa neoplasia, l’età avanzata (solitamente colpisce persone over50), ma è stata osservata anche una correlazione con l’esposizione prolungata ai raggi UV. Non solo: anche l’immunosoppressione potrebbe aumentare il rischio di incorrere in questo tipo di tumore, così come l’infezione da Poliomavirus, un virus che sembrerebbe capace di dare avvio al processo di genesi tumorale.

Sara Pero

Millenials ‘sotto attacco’ da sei tipi di tumore

ESMO CONGRESS 2019 PER L’ITALIA

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Millenials ‘sotto attacco’ da sei tipi di tumore

Una importante ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista The Lancet Public Health, svela i retroscena sul rapporto perverso tra stile di vita e probabilità di sviluppare un tumore. I ricercatori della società americana di oncologia (American Cancer Society) nello studio hanno esaminato circa 15 milioni di americani, cui è stato diagnosticato un tumore tra il 1995 e il 2014. Parliamo di giovani di 25–35 anni, i cosiddetti ‘millenials’, oggi più a rischio addirittura dei loro genitori. L’aumento riguarda in particolare sei tipi di tumore, rimasti in questi anni quasi sempre nell’ombra. Ne parla la giornalista Vera Martinella sul Corriere della Sera, aiutandoci, insieme a due esperti, a capire come ad essere sotto accusa sia proprio lo stile di vita, e quindi il grasso viscerale e addominale. Quello che non si vede, ed è assai più pericoloso di quello che accumula in superficie. Gli esperti sono i proff. Maurizio Muscaritoli, ordinario di Medicina Interna al Dipartimento di Medicina Clinica e Direttore del Coordinamento Attività di Nutrizione Clinica alla Sapienza Università di Roma, e Giordano Beretta responsabile dell’Unità operativa di Oncologia medica di Humanitas Gavazzeni. Riportiamo qui il testo dell’articolo, mentre in calce troverete il link all’articolo originale (che – lo ricordiamo – è gratuito, ma richiede la sottoscrizione di un abbonamento dopo i primi 10 articoli letti ogni mese). Buona lettura.

Carlo Buffoli

INDAGINE USA

I 25enni più a rischio di cancro dei loro genitori a causa dell’obesità

I millennials, e soprattutto i 25–35enni, hanno maggiori probabilità di ammalarsi di uno dei sei tipi di cancro collegati ai chili di troppo. Già oggi i casi di tumore sono in aumento negli under 50. Ecco perché e cosa fare

Giovani adulti, tra i 24 e i 49 anni, che sempre più spesso si ammalano di cancro per colpa dei chili in eccesso e che oggi hanno il doppio delle probabilità di sviluppare un tumore rispetto ai loro genitori o nonni quando avevano la loro età. La pericolosa tendenza è in aumento negli Stat Uniti e a lanciare l’allarme sono i ricercatori dell’American Cancer Society che nei giorni scorsi hanno pubblicato uno studio sulla rivista scientifica The Lancet Public Health. Dopo aver esaminato i dati relativi a quasi 15 milioni di americani ai quali è stato diagnosticato un tumore fra il 1995 e il 2014, gli scienziati hanno individuato il trend in ascesa nei più giovani di sei tipi di cancro direttamente collegato all’obesità: endometrio, cistifellea, rene, pancreas, mieloma multiplo (una neoplasia che colpisce il midollo osseo) e colon retto, che ero già stato al centro di una ricerca precedente giunta alle stesse preoccupanti conclusioni. Ad essere sotto accusa in particolare è il tipo di distribuzione corporea del grasso oltre alla sua quantità assoluta: il grasso viscerale e addominale, situato in profondità intorno agli organi centrali del corpo (come ad esempio intestino, cuore, fegato) e quindi non palpabile è ben più pericoloso del grasso sottocutaneo che si accumula in superficie, tra pelle e muscoli.

Lo studio: millennials più a rischio dei baby boomers

I tumori sono malattie tipiche dell’invecchiamento e, anche in Italia, circa la metà dei casi si registra in chi ha più di 60 anni. Un discorso che vale anche per le neoplasie scatenate dal peso eccessivo. Tuttavia, la nuova analisi americana mette in luce che fra i millennials (una definizione che indica la generazione del nuovo millennio e comprende i nati tra il 1980 e 2000) sono in crescita proprio quelle malattie causate dai chili di troppo finora più comuni in chi ha superato la soglia dei 65–70 anni. Un esempio su tutti, il temibile carcinoma del pancreas, fra le neoplasie ancora oggi più letali e che generalmente colpisce gli over 65: le statistiche hanno registrato un aumento dei 4,34 per cento di casi fra i 25 e i 29 anni, del 2,47 per cento nei 30–34enni, dell’1,31 per cento nei 35–39 e solo dello 0,72 per cento in chi ha fra i 40 e i 44 anni. E il rischio di sviluppare cancro al colon, endometrio, pancreas e cistifellea nei millennials risulta doppio rispetto a quello dei baby boomers (ovvero i nati all’incirca fra il 1946 e il 1965, che oggi hanno tra i 50 e i 70 anni) quando avevano la loro età.

L’obesità, un’epidemia anche italiana

Dei sette miliardi e mezzo di abitanti del pianeta, più di due superano il peso consigliato: hanno cioè un indice di massa corporea superiore a 25 (sopra il 30 inizia l’obesità). Un problema che riguarda da vicino anche l’Italia: “Dati recenti elaborati dell’Osservatorio Nazionale sulla salute rivelano che più di un terzo della popolazione adulta (35,3%) del nostro Paese è in sovrappeso – spiega Maurizio Muscaritoli, presidente della Società Italiana di Nutrizione Clinica e Metabolismo – mentre una persona su dieci è obesa (9,8%). Quasi la metà (45,1%) dei maggiorenni è in ‘eccesso ponderale’, cioè sovrappeso o obeso. Sempre in Italia, sono le persone tra i tra i 65 e i 74 anni quelle in cui si registrano percentuali più alte di eccesso ponderale: è sovrappeso il 52,6% degli uomini e il 40,3% delle donne; obeso il 16% dei primi e il 14,8% delle seconde”. Non va meglio, purtroppo, se si guarda ai più piccoli. Una recente indagine condotta da OKKIO ALLA SALUTE, su un campione di quasi 49mila bambini in età scolare ha messo in luce che quasi un terzo (il 31%) dei giovanissimi ha un peso superiore alle soglie raccomandate per l’età di appartenenza.

Il legame tra cancro e chili di troppo: ecco a cosa è dovuto

I chili in eccesso causano ben 4 milioni di morti ogni anno, il 40 per cento dei quali in persone che erano “soltanto” sovrappeso e non obese. Morti dovute soprattutto a malattie cardiovascolari, ma anche ai tumori. Qual è il legame fra grasso e cancro? Generalmente, per semplificare, si parla di una “relazione pericolosa” fra neoplasie e obesità, “ma la vera responsabile è la sindrome metabolica – chiarisce Giordano Beretta, presidente eletto dell’Associazione Italiana di Oncologia Medica (Aiom) –, che interviene in tutte le fasi del tumore, dalla formazione alla progressione, dalla resistenza alle terapie fino all’insorgenza di recidive. Una caratterizzata da aumento della circonferenza dell’addome, ipertensione arteriosa, ipertrigliceridemia, ridotti livelli di colesterolo “ buono” HDL e aumento della glicemia a digiuno”.

L’Italia

Le cifre allarmanti sui millennials riguardano anche l’Italia? “Ovviamente si, non esistono purtroppo frontiere geografiche o culturali in grado di arginare il cancro – risponde Muscaritoli, che è anche Ordinario di Medicina Interna al Dipartimento di Medicina Clinica e Direttore del Coordinamento Attività di Nutrizione Clinica alla Sapienza Università di Roma –. I meccanismi che legano l’eccesso di grasso all’aumentato rischio di ammalarsi di cancro sono gli stessi su tutto il pianeta: gli stili di vita inadeguati, caratterizzati da eccessiva assunzione di calorie a fronte di una attività fisica insufficiente, portano ad un accumulo di tessuto adiposo e ad un aumento sostenuto e persistente di alcuni ormoni, quali innanzi tutto l’insulina e l’IGF–1 che hanno potenti azioni anatoliche. L’accumulo di grasso, soprattutto il cosiddetto grasso viscerale, favorisce il rilascio di sostanze che provocano l’infiammazione oggi considerata un potente stimolatore della crescita tumorale”.

Quali sono i parametri da monitorare

“Diversi studi hanno messo chiaramente in evidenza che l’eccessivo peso non solo fa crescere le possibilità di ammalarsi, ma anche di morire di cancro – conclude Beretta, responsabile dell’Unità operativa di Oncologia medica di Humanitas Gavazzeni –. Chi è obeso rischia di sviluppare forme più aggressive e difficili da curare, così come ha maggiori probabilità di avere una recidiva di un precedente tumore o di andare incontro a complicanze durante le cure. Nel paziente obeso il trattamento rischia di essere ridotto o eccessivo a causa della differente distribuzione del farmaco che si verifica nel grasso corporeo. Fortunatamente sappiamo anche che dimagrire contribuisce, concretamente, a migliorare la situazione. Per tenere sotto controllo il proprio peso corporeo sono importanti due parametri: l’indice di massa corporea (BMI, Body Mass Index) che si ottiene dividendo il peso (espresso in chilogrammi) per il quadrato dell’altezza e la circonferenza della vita (misurata all’altezza dell’ombelico), che è un indice del tessuto adiposo addominale in relazione al rischio di malattie cardiovascolari e dismetaboliche e che non dovrebbe superare gli 80 centimetri”.

Vera Martinella

Menarini Ricerche, tre studi clinici al congresso ASCO 2019

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Menarini Ricerche, tre studi clinici al congresso ASCO 2019

Chicago, 3 giugno 2019 – La ricerca farmaceutica italiana resta leader al mondo anche in ambito oncologico. Il Gruppo Menarini sarà presente al congresso americano di oncologia ASCO 2019 con tre presentazioni di alto profilo che coinvolgono Italia, Europa e Stati Uniti. Al centro dell’attenzione patologie oncologiche su seno e sangue.

Il primo studio riguarda il tumore del seno, si chiama “B-PRECISE-01” e vede protagonista la molecola denominata MEN1611, un potente inibitore della PI3K (fosfatidilinositolo-3-chinasi, selettivo per la classe I), un enzima responsabile di importanti segnali che promuovono la sopravvivenza e la proliferazione della cellula tumorale.

“Circa il 25% delle donne con tumore al seno avanzato positivo al recettore degli estrogeni presenta mutazioni PIK3CA, questo significa che si lavora su numeri importanti nell’ambito del carcinoma mammario”.

Questo studio è al momento in corso in Europa, con l’obiettivo di selezionare la dose raccomandata per la fase 2 e rilevare un’attività clinica preliminare di MEN1611 in combinazione con altri farmaci (trastuzumab +/- fulvestrant).

Il disegno dello studio clinico B.PRECISE-01 è un esempio di terapie mirate che possono essere sviluppate con approcci di medicina di precisione e dirette a un sottogruppo di pazienti con elevato medical need.

Il secondo studio riguarda i tumori del sangue, cosiddetti ‘ematologici’. Qui sarà presentato il poster “CLI24-001” che riguarda la leucemia mieloide acuta, e sarà mostrato per la prima volta il disegno del primo studio clinico nell’uomo “DIAMOND-01” in pazienti con leucemia mieloide acuta (di prima diagnosi, recidivante o refrattaria e con nessuna opzione terapeutica disponibile). Insomma una grande speranza per i pazienti. Questo studio valuta per la prima volta un doppio inibitore, MEN1703, sia della chinasi PIM che della chinasi FLT3, a prescindere dello stato mutazionale FLT3, e con il potenziale di scavalcare eventuali resistenze ai tipici trattamenti con inibitori esclusivi di FLT3. L’obiettivo principale di questo studio, condotto negli Stati Uniti, è quello di identificare la dose da utilizzare per i successivi studi clinici.

Un terzo abstract analizzerà i risultati di uno studio retrospettivo volto a valutare l’espressione del CD205 su campioni di tessuto di pazienti con cancro della mammella triplo negativo, adenocarcinoma pancreatico e carcinoma uroteliale della vescica.

Il CD205 è l’antigene bersaglio di MEN1309/OBT076, un anticorpo IgG1 umanizzato specifico per CD205, coniugato ad una tossina.La tossina quindi è in grado di uccidere la cellula tumorale a cui il MEN1309 si lega.

Per MEN1309/OBT076, attualmente in fase I in Europa (studio CD205-SHUTTLE), si stanno arruolando pazienti affetti da tumori solidi e linfoma Non-Hodgkin. Un secondo studio di fase I partirà molto presto in USA. I risultati ottenuti da questo studio sulla distribuzione dell’antigene, saranno importanti per supportare lo sviluppo clinico di MEN1309 in questi tipi di tumore. Anche questo studio clinico segue un approccio di oncologia di precisione, reclutando solo pazienti positivi per l’espressione del target terapeutico CD205. Tale studio è stato a sua volta oggetto di presentazione come poster allo stesso congresso dell’ASCO lo scorso anno.

Il contributo di Menarini Ricerche all’ASCO, con questi tre progetti, dimostra ancora una volta la qualità della ricerca oncologica in Italia, e la determinazione di Menarini nel voler contribuire in modo sostanziale alla cura del cancro, investendo nello sviluppo di terapie innovative con l’obiettivo di offrire soluzioni a pazienti che ad oggi hanno opzioni terapeutiche limitate e prognosi sfavorevoli.